sabato 25 marzo 2006

Buonasera (seconda parte)

Si voltò di scatto, quasi aspettandosi di fare un brutto incontro. Quell'uomo era là, era entrato dietro di lui dal portone rimasto aperto. Non lo conosceva. Cercò disperatamente di ritrovare fra i suoi ricordi un viso, qualche tratto che gli permettesse di ricordare. Nulla. Mentre un milione di pensieri si azzuffavano nella sua testa, rispose senza convinzione a quel saluto, col fiato mezzo spento dal suo recente affanno: "Buonasera".


L'uomo era rimasto immobile e continuava a guardarlo, fissandolo coi suoi occhi neri. Era alto, fisico asciutto, età indefinita, ma non più giovane. Si sarebbe detto un bell'uomo. Portava un impermeabile lungo, scuro, forse nero. "Tu non mi conosci" disse con tono indisponente. Non gli piacque affatto che uno sconosciuto gli desse del "tu". Era segno di guai in arrivo. "Tu non mi conosci, ma io so chi sei" riprese a dire lo sconosciuto. Peggio ancora ! Rimase fermo, respirò a fondo silenziosamente. Bisognava fronteggiare la situazione, qualunque fosse la maledetta sorpresa che si nascondeva dietro quel volto. Il cuore accelerò e prese quel ritmo saltellante che aveva sempre in queste occasioni. Come diceva scherzando con gli amici, era un animale nato per lottare, anche se ormai, con tutte le battaglie giuste o sbagliate che si era lasciato alle spalle, alla sua età avrebbe preferito evitare. Non aveva ormai più niente da difendere né da conquistare. Quello che aveva avuto dalla vita poteva considerarsi tanto, o nulla, a seconda del punto di vista. Nato in una famiglia modesta, aveva conosciuto la povertà durante l'infanzia, quella che angosciava tanto sua madre, la quale si ingegnava di fare la spesa al mercato nelle ore più tarde, quando la verdura costa meno, anche se ormai è rimasta solo quella di qualità più scadente. Quella che limitava la carne una volta a settimana, e spesso era spezzatino nel sugo, e lo stesso sugo durava tre giorni. Quella che gli faceva sembrare una festa la frittata del venerdì. La stessa povertà che lo aveva abituato ad un solo bagno alla settimana, dentro la vasca di ghisa smaltata e qua e là scrostata, riempita coi pentoloni di acqua fatta scaldare sui fornelli di cucina, sempre troppo bollente all'inizio, che poi diventava subito fredda. E i capelli glieli lavava mamma, rovesciandogli la testa all'indietro nel lavandino, e lui che ogni volta aveva paura di morire soffocato dalle catinate d'acqua che lei gli versava sulla testa. E la sera andavano, lui e sua madre, incontro a suo padre nel campo sterrato che costeggiava la loro casa di borgata periferica, con una piccola torcia elettrica. Suo padre tornava con l'autobus e la fermata era in aperta campagna. A cena ascoltavano tutti e tre la radio: prima le notizie, poi, quando c'erano, le commedie recitate. Quante ne aveva sentite, finendo per addormentarsi sulla sedia ! Non andava ancora a scuola, e a quel tempo non c'era l'asilo gratis a portata di mano in quella borgata. Tutto questo gli passò per la mente in un attimo, e si sentì imrovvisamente stanco, molto stanco. Non aveva nessuna voglia di affrontare l'eenesima battaglia inutile con quello sconosciuto che l'aveva forse aspettato per tutto il giorno, meditando chissà quale assurda vendetta, chissà quale affare da discutere o da sistemare.


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Ormai non poteva tirarsi indietro. Prese il coraggio a due mani, tirò un respiro lungo, silenziosamente; sentì il cuore pompare più forte, come gli accadeva sempre in quelle situazioni: gli occhi erano diventati due fessure, i muscoli erano tesi, la voce si fece metallica. "Io invece non la conosco. Mi dica, che cosa vuole da me ?" aveva volutamente usato il "lei", per creare una distanza. Quella mossa non ebbe effetto, almeno apparentemente. "Sono qui per una soluzione definitiva. Sono venuto a prenderti". Bisognava ribattere, cercando almeno di ottenere uno straccio di spiegazione. "Per portarmi dove ?". "Lo capirai presto. Io ti ho dato tutto, tutto quello che hai avuto dalla vita: un'infanzia povera ma felice, un'adolescenza combattuta ma piena di avventure, un'età adulta libera e piena di emozioni, una maturità che ti ha riempito di affetti ...". "Aspetti un momento" la sua voce era ormai un sibilo "non è stato tutto così rose-e-fiori come lei vuol farmi intendere ! Nell'infanzia ho avuto il mio bel daffare a conquistarmi la vita giorno per giorno, nell'adolescenza vogliamo parlare del mio sentirmi sempre un pesce fuor d'acqua, sempre a cercar di capire come non fare errori, sempre solo, davanti a qualcosa di sconosciuto, e poi l'età adulta ! andiamo ! un bel fallimento sentimentale a trent'anni ! e l'età matura ? tu chiamale se vuoi ... depressioniiiii" faceva il verso a Lucio Battisti. Poi come di soprassalto: "ma lei perché dice di avermi dato tutto questo ? Lei chi è insomma ?!" "Io ti accompagno da quando sei nato: non confonderti, vedendomi di aspetto più giovane di te, io cambio forma, espressione, perfino voce, io sono ciò che dev'essere, fino alla fine ... fino alla fine ..." quella voce echeggiava nell'androne deserto e illuminato solo dalla luce fioca dell'unica lampadina che non si era ancora fulminata. Quante volte gliel'aveva ricordato, a quel fannullone del custode, che c'erano le lampadine fulminate da cambiare. Ma lui no, d'accordo con l'amministratore del condominio, che ogni anno caricava una cifra spropositata per "sostituzione lampade", blaterando che se avesse chiamato un elettricista per ogni lampadina fulminata, sai che conto ! invece ci pensava in prima persona, facendosi aiutare dal custode ... ecco i risultati ! Un androne sempre mezzo buio, in cui si rischiava di inciampare in quei maledetti mezzi gradini a metà del corridoio ! Accidenti ! Quell'uomo era ancora là, non accennava a volersene andare. La sua mente invece era confusa da tutti quei discorsi, aveva soltanto voglia di rientrare a casa e mettersi comodo, finalmente ! Si sarebbe rinfrescato un po' in bagno, avrebbe acceso lo stereo, mettendo un po' di musica, avrebbe preso un libro, magari uno di quelli che aveva lasciato a metà, come faceva spesso, e si sarebbe accomodato sul divano, il suo divano, un po' vecchio e malandato ma comodo, ormai come assuefatto al suo peso, alla forma del suo corpo. Come succede alle persone che vivono da sole, aveva un rapporto quasi di amicizia con le cose che lo circondavano, nella sua casa. Innanzi tutto il suo letto: era là che si svegliava ogni mattina, allo squillare penetrante della sveglia. Già, la sua sveglia: l'oggetto che odiava più di tutti, ma in fondo ci era anche affezionato; non l'avrebbe cambiata per nessun motivo al mondo. E ogni sera controllava che funzionasse a dovere, prima di mettersi a letto. Fra gli oggetti che invece amava c'era la caffettiera. Una vecchia moka in alluminio, piccola. La riempiva con cura, avvitando bene la parte superiore sulla caldaietta, stringendo forte. Poi la sistemava sul fornello più piccolo, accendeva e regolava la fiamma al minimo, tanto che a volte d'estate a finestre aperte un colpo di vento, quasi senza farsi notare, spegneva la fiamma. Pazientemente allora la riaccendeva e aspettava che il primo sbuffo di caffè facesse la sua comparsa nel recipiente superiore. Sbirciava sollevando il coperchio: che strano, da quando aveva imparato a fare il caffè, cioè da quando andò a vivere per la prima volta da solo, ogni volta paragonava l'uscita di quel liquido denso, odoroso, ad una sorta di eiaculazione, prodotta dall'orgasmo silenzioso e potente di quel piccolo mostro-caffettiera. Si sentiva un pervertito guardone, a spiare l'attimo del godimento, lo schizzo liberatorio di tanta potenza finora trattenuta. Ed era contento di averlo in qualche modo provocato, così come pregustava il momento in cui avrebbe assaporato quel prezioso liquido, aromatico e caldo. Spegneva accuratamente la fiamma prima che il residuo vapore guastasse annacquandolo il suo perfetto caffè ormai pronto per essere gustato. Poi c'erano la sua chitarra, quella che aveva ricomprato perché la sua "gloriosa" aveva tirato le cuoia, il suo stereo, i suoi dischi, insomma la sua musica.


Meno di un istante per pensare tutto questo. Quell'uomo si mosse, lentamente. Portò la mano destra alla cintura. In un lampo estrasse qualcosa. Luccicava sinistramente. Una lama. Un coltello. Il cuore prese a battere più forte. Cercò di fuggire, ma quell'uomo fu più rapido. Lui incespicò su un gradino là in mezzo al corridoio male illuminato. L'uomo gli fu addosso e con una mossa fulminea lo colpì. Senti una fitta fortissima, proprio là, in mezzo al petto. Cadde senza un lamento, giusto il tempo di sentire le ultime parole che quello sconosciuto disse, un attimo di sparire attraverso il portone ancora aperto: "Io sono il tuo Destino, e sono venuto per portarti indietro ... indietro ... nel Grande Buio da cui tutti vengono, a cui tutti sono destinati".


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Al mattino presto, verso le sei, il custode uscì dalla sua abitazione-guardiola e trovò quel corpo ancora mezzo rattrappito, là in mezzo all'androne. "Infarto miocardico" sentenziò il medico legale "dev'essere successo intorno alle 11, mezzanotte. Portatelo all'obitorio per l'autopsia". Non c'erano tracce di sangue. Nel trambusto non si era accorto, il custode, che il portone quella mattina era stranamente aperto.